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26 luglio 2000 Santo Gioacchino e Santa Anna |
Per di più, Papa Giovanni Paolo II lo beatificava, il primo sabato del mese di ottobre 1998, nel santuario nazionale e mariano di Marija Bistrica (Croazia): «Il Cardinale Arcivescovo di Zagabria, una delle figure più in vista della Chiesa cattolica, dopo aver subito nel corpo e nello spirito le atrocità del sistema comunista, è ormai affidato alla memoria dei suoi compatrioti con le insegne radiose del martirio...
Attraverso il suo itinerario umano e spirituale, il beato Aloizij Stepinac ha dato al suo popolo una specie di bussola con cui orientarsi. Eccone i punti cardinali: la fede in Dio, il rispetto dell'uomo, l'amore di tutti spinto fino al perdono, l'unità con la Chiesa sotto la guida del Successore di Pietro. Sapeva perfettamente che non si possono fare riduzioni, quando si tratta della verità, perchè la verità non è una merce di scambio. Così, preferì affrontare la sofferenza, piuttosto che tradire la propria coscienza e mancare alla parola data a Cristo ed alla Chiesa» (Omelia della beatificazione, 3 ottobre 1998).
L'esempio di un santo
Aloizij Stepinac è nato a Krasic, nel nord-ovest della Croazia, l'8 maggio 1898. Quinto figlio di una famiglia di agricoltori agiati, cresce in seno ad una famiglia profondamente cristiana, in cui regnano l'amore ed il rispetto reciproco, nonchè la carità nei riguardi dei più poveri. Sua madre, donna semplice e devota, venera particolarmente la Beata Vergine Maria, tratto che distinguerà anche il figlio.
Inviato alla scuola media a Zagabria, Aloizij vi dimostra una volontà energica, malgrado un temperamento discreto e riservato. Nel 1917, viene mobilitato nell'esercito austroungarico. Tornato a casa nel giugno del 1919, dopo un breve periodo di prigionia in Italia, il giovane attraversa una crisi interiore. Disgustato dall'immoralità che ha visto accanto a sè nell'esercito, inizia studi di agricoltura, ben presto interrotti. Un progetto di matrimonio non si concretizza. Nel marzo del 1924, un sacerdote che lo conosce bene pubblica in una rivista un articolo su San Clemente Maria Hofbauer e glielo manda con una lunga lettera. Colpito dall'esempio del santo, il giovane si decide a consacrare la propria vita a Dio ed entra nel Seminario «Germanicum» di Roma. Uno dei suoi condiscepoli dirà di lui: «Ardeva d'amore per la Chiesa ed era tutto pieno di fedeltà al Santo Padre».
Don Stepinac termina un dottorato di filosofia, poi uno di teologia presso l'Università Gregoriana di Roma, e viene ordinato sacerdote il 26 ottobre 1930. Di ritorno in Croazia, trova il paese straziato e sfruttato dalla Serbia. Il suo desiderio è quello di essere curato di campagna, ma l'arcivescovo di Zagabria lo tiene presso di sè in veste di cerimoniere, poi di notaio della Curia arcivescovile. Accetta, osservando: «Non so se rimarrò qui o meno. Me ne importa poco; tutte le vie al servizio di Dio conducono in Cielo». Gli vengono affidate missioni importanti, come quella di sedare i conflitti sopravvenuti in certe parrocchie. Suscita opere caritative nei quartieri poveri di Zagabria ed organizza mense per i poveri.
Nel 1934, l'arcivescovo, Monsignor Bauer, si ammala gravemente e chiede alla Santa Sede un coadiutore. Propone il nome di Aloizij Stepinac, che si sforza invano di sfuggire a tale incarico, facendo valere la sua età (36 anni) e la sua poca esperienza sacerdotale: il 29 maggio, è nominato coadiutore. Si reca a piedi al santuario mariano di Marija Bistrica, a 36 km da Zagabria, per affidare a Maria il suo difficile ministero. Infatti, i vescovi croati devono lottare senza posa per il riconoscimento dei diritti della Chiesa cattolica (libertà scolastica, libertà d'associazione, autorità della Chiesa sui matrimoni dei cattolici, ecc.).
Il 7 dicembre 1937, Monsignor Bauer muore e Monsignor Stepinac gli succede in qualità di arcivescovo di Zagabria. Il prelato raccomanda ai suoi sacerdoti di consacrare il meglio di sè alla loro vita interiore. Uno gli atti della sua amministrazione prima della guerra, è la pubblicazione di una lettera aperta a tutti i medici per denunciare la «peste bianca»: lo sviluppo della contraccezione e dell'aborto. D'altra parte, fonda un quotidiano cattolico per combattere l'influenza della stampa irreligiosa.
L'arcivescovo stima profondamente la vita monastica e giudica indispensabile il suo sviluppo. I monasteri devono diventare «fortezze di Cristo», e proteggere la diocesi con le armi spirituali della preghiera, dell'abnegazione e del sacrificio.
«Il frutto di un egoismo immenso»
Il 10 aprile 1941, dopo l'invasione della Iugoslavia da parte dell'esercito tedesco, i nazionalisti croati (chiamati anche Ustascia) proclamano uno stato indipendente a Zagabria. Accanto a realizzazioni positive (libertà totale per la Chiesa cattolica, protezione dei buoni costumi, ecc.), il nuovo regime si disonora con discriminazioni contro i cittadini di religione ortodossa, contro gli Ebrei e gli Zigani. Senza condannare totalmente lo Stato croato riconosciuto «de facto» dalla Santa Sede, Monsignor Stepinac osserva la massima riserva. Si fa il portavoce di tutti gli oppressi e perseguitati, denuncia i soprusi degli Ustascia e condanna le teorie razziali nonchè le persecuzioni contro le minoranze ebraica e serba.
Il governo croato spinge gli ortodossi a farsi cattolici. Monsignor Stepinac invia al suo clero una nota confidenziale: «Quando si rivolgono a voi persone di confessione ebraica o ortodossa che si trovano in pericolo di morte, e che vogliono pertanto convertirsi al cattolicesimo, accettateli1 per salvar loro la vita. Non esigete da essi nessuna conoscenza religiosa particolare, poichè gli ortodossi sono cristiani come noi, e la fede ebraica è la radice del cristianesimo. Il compito ed il dovere dei cristiani sono, prima di tutto, quelli di salvare la gente. Quando finirà questo periodo di follia e di barbarie, potranno rimanere nella nostra Chiesa coloro che si saranno convertiti per convinzione; gli altri, passato il pericolo, torneranno nella loro». La Chiesa, infatti, insegna la libertà dell'atto di fede: «È uno dei punti principali della dottrina cattolica il fatto che la risposta della fede data dall'uomo a Dio deve essere volontaria; di conseguenza, nessuno deve essere costretto ad abbracciare la fede suo malgrado» (Vaticano II, Dignitatis humanæ, 10).
Durante tutta la guerra, l'arcivescovo di Zagabria prodiga i benefici della carità agli infelici, qualsiasi essi siano. Distribuisce a vagoni interi cibo ai profughi, si prende personalmente cura degli orfani i cui genitori sono stati internati o si sono dati alla macchia, e salva dalla fame e dalla morte 6700 bambini, la maggior parte figli di genitori ortodossi.
Il presidente della comunità ebraica degli Stati Uniti, Luigi Breier, dirà di lui, il 13 ottobre 1946: «Quest'alta personalità della Chiesa è stata accusata di collaborazione con i nazisti. Noi, Ebrei, lo neghiamo. Sappiamo, attraverso la sua vita dal 1934 in poi, che è stato sempre un vero amico degli Ebrei che, in quegli anni, subivano le persecuzioni di Hitler e dei suoi adepti. Aloizij Stepinac è uno di quegli uomini, rari in Europa, che si sono elevati contro la tirannide nazista, proprio nel momento in cui era più pericoloso farlo... È grazie a lui che la legge sul «bracciale giallo» è stata ritirata... Dopo Sua Santità, Papa Pio XII, l'arcivescovo Stepinac è stato il più grande difensore degli Ebrei perseguitati in Europa».
Quando le campane tacciono
Il 17 maggio 1945, l'arcivescovo è condotto di sorpresa in prigione. Il 3 giugno, i vescovi croati esigono la sua scarcerazione, quale preliminare a qualsisi discussione. Tutte le campane tacciono a Zagabria e la processione del Corpus Domini viene annullata. Davanti a questo movimento di resistenza imprevisto, Tito cede e fa liberare Monsignor Stepinac. Il 24 giugno, in una circolare inviata a tutti i sacerdoti, il prelato ricorda il dovere sacro dei genitori di richiedere l'educazione religiosa nelle scuole. Esorta tutti i fedeli a pregare di più in quei giorni difficili, e, in particolare, a recitare il rosario.
Tuttavia, la dittatura si installa senza tener conto della dichiarazione solenne del governo federale della Iugoslavia, secondo cui sarebbero state rispettate la libertà di coscienza e di confessione religiosa, nonchè la proprietà privata. In una lettera pastorale del 20 settembre 1945, i vescovi cattolici della Iugoslavia constatano che 243 sacerdoti sono stati uccisi dopo la fine della guerra e 258 sono internati o sono spariti. Poi, sottolineando la paralisi dei seminari, gli effetti devastatori provocati nei giovani dalla propaganda atea e l'immoralità favorita dallo Stato, condannano solennemente «lo spirito materialistico ed empio che si diffonde nel nostro paese».
Nell'ottobre del 1945, in occasione di una visita pastorale, la macchina di Monsignor Stepinac viene assalita da comunisti, ed i vetri sono rotti a sassate. La vigilia dell'attentato, la milizia aveva minacciato il prelato di rappresaglie, se avesse compiuto detta visita. «Ad ogni modo, osserva l'arcivescovo, si muore una volta sola; che facciano quel che vogliono, ma non smetterò mai di predicare la verità; non temo nessuno, tranne Dio, ed il mio dovere rimane lo stesso: salvare le anime».
«Ho la coscienza pulita e tranquilla»
Il 18 settembre 1946, alle ore 5 del mattino, la milizia penetra nell'Arcivescovado e si precipita nella cappella dove il prelato è in preghiera. All'intimazione di seguire i poliziotti, risponde: «Se avete sete del mio sangue, eccomi». Il 30 settembre, inizia un processo che Papa Pio XII qualificherà di «tristissimo». Forte di una coscienza retta e pura, Monsignor Stepinac non cede davanti ai giudici. Perfettamente calmo, certo della protezione dell' «avvocata della Croazia, della più fedele delle Madri», la Santissima Vergine Maria, ascolta, l'11 ottobre, l'ingiusta sentenza pronunciata contro di lui, sentenza che lo condanna a sedici anni di carcere ed ai lavori forzati «per crimini contro il popolo e lo Stato». «La ragione della persecuzione che subisce e della parvenza di processo organizzato contro di lui, dirà Papa Giovanni Paolo II, il 7 ottobre 1998, fu il rifiuto che oppose alle insistenze del regime, affinchè si separasse dal Papa e dalla Sede Apostolica, e si mettesse alla testa di una «Chiesa nazionale croata». Preferì rimanere fedele al Successore di Pietro. Per questo fu calunniato, poi condannato».
Incarcerato a Lepoglava, Monsignor Stepinac vi condivide la misera sorte di centinaia di migliaia di prigionieri politici. Numerosi sono i custodi che lo umiliano, entrando continuamente nella sua cella, con l'ingiuria facile. I pacchi alimentari che riceve vengono lasciati per parecchi giorni al caldo, o saccheggiati perchè i viveri siano immangiabili. L'arcivescovo continua a tacere. Trasforma la sua cella della prigione in cella monacale di preghiera, di lavoro e di santa penitenza. Gli è stato tolto tutto «tranne una cosa: la possibilità di alzare, come Mosè, le braccia al cielo (ved. Es. 17, 11). Ha la gioia di poter celebrare la Messa su un altare di fortuna. Sull'ultima pagina dell'agenda del 1946, scrive: «Tutto, per la massima gloria di Dio; anche la mia prigione».
«Soffrire e agire per la Chiesa»
A dei visitatori scoraggiati dalle turpitudini del comunismo, Monsignor Stepinac risponde: «Non bisogna disperare, perchè, anche se il comunismo lascia tracce nel nostro popolo, se abbiamo le mani legate da quest'ideologia perfida e se alcuni sono caduti nell'errore, siamo tuttavia migliori dei popoli dell'Ovest, saturi di beni materiali, ma che soffocano nell'immoralità e nell'ateismo pratico. Grazie a Dio, il mio popolo è rimasto fedele a Dio ed al rispetto dovuto alla Santa Vergine».
Nel frattempo, il governo iugoslavo cerca, ad ogni costo, di provocare una rottura dei Cattolici croati con Roma, e di fondare una Chiesa nazionale scismatica, nella prospettiva di riunire i Croati alla Chiesa ortodossa serba. Una «associazione dei Santi Cirillo e Metodio», che raggruppa «sacerdoti patrioti» fedeli al regime, viene all'uopo creata. L'anno 1953 è segnato da violenze da parte del governo. L'arcivescovo recluso incoraggia sacerdoti e fedeli attraverso un'abbondante corrispondenza, esorta gli indecisi, riconduce all'ovile le pecorelle smarrite. Più di un sacerdote ha confessato: «Se non ci fosse stato lui, chissà che strada avremmo preso?» Una delle principali comparse di Tito, Milovan Djilas, rivelerà in seguito: «Se Stepinac avesse voluto cedere e proclamare una Chiesa croata indipendente da Roma, come volevamo noi, l'avremmo colmato d'onori!»
«Vincerà lo spirito, non la materia...»
La generosità del Cardinale per coloro che sono più poveri di lui non ha limiti: «Ha soltanto lo stretto necessario per vestirsi, osserva il curato di Krasic; dà tutto. Ha dato ai poveri ancora adesso due paia di scarpe». Umile, Monsignor Stepinac si rammarica della pubblicità fatta intorno alla sua persona. Apprendendo un giorno che una rivista straniera ha pubblicato una dichiarazione del papa: «Il Cardinale della Croazia è il massimo prelato della Chiesa cattolica», abbassa la testa mormorando: «Dio solo è grande!»
Alla fine del 1952, deve subire un'operazione alla gamba, poi, l'anno seguente, gli si dichiara una grave malattia del sangue, dovuta, secondo i medici, ai maltrattamenti subiti. Gli sono dispensate cure mediche, ma rifiuta di farsi curare all'estero, come sarebbe necessario; da buon pastore, desidera rimanere con il suo gregge. Tuttavia, i metodi del regime comunista non diventano meno aspri. Nel novembre del 1952, Tito ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con il Vaticano, e, simultaneamente, ha dato l'ordine alla polizia di impedire qualsiasi ulteriore visita a Krasic. I custodi del prelato (non sono meno di trenta nel 1954) lo insultano e lo prendono in giro in tutti i modi. La lunga inchiesta svolta in vista della sua beatificazione giungerà, nel 1994, alla conclusione che la sua morte è la conseguenza dei quattordici anni di un isolamento ingiusto, di pressioni fisiche e morali costanti e di sofferenze di ogni specie. Così, è «affidato alla memoria dei suoi compatrioti con le fulgide insegne del martirio» (Giovanni Paolo II, 3 ottobre 1998).
Vincere il male con il bene
«Perdonare e riconciliarsi, dirà Papa Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione del Cardinale Stepinac, ciò significa purificare la memoria dall'odio, dai rancori, dal desiderio di vendetta; ciò significa riconoscere che anche colui che ci ha fatto del male è un fratello; ciò significa non lasciarsi vincere dal male, ma vincere il male con il bene (ved. Rom. 12, 21)».
Nel 1958, le sofferenze del Cardinale diventano pressocchè intollerabili, ma quel che gli è più penoso è il fatto di non aver più la forza di celebrare la Messa. Il 10 febbraio 1960, spira a Krasic, pronunciando queste parole: «Fiat voluntas tua!» (Sia fatta la Tua Volontà!).»
In te Domine speravi (Ho sperato in te, Signore). Questo era il suo motto. In una delle sue prediche, confidava il segreto della sua speranza: «Qualcuno potrebbe chiedere: «E la nostra speranza, su che cosa si basa?» Rispondo: sulla fedeltà a Dio, perchè Dio non mente. Sull'onniscienza divina, cui nulla sfugge. Sull'onnipotenza di Dio che è sempre Padrone di tutto». Il 7 ottobre 1998, Papa Giovanni Paolo II constatava il trionfo di quest'invincibile speranza: «Riconosciamo, nella beatificazione del Cardinale Stepinac, la vittoria del Vangelo di Cristo sulle ideologie totalitarie; la vittoria dei diritti di Dio e della coscienza sulla violenza e le angherie; la vittoria del perdono e della riconciliazione sull'odio e la vendetta».
Se siamo riempiti di una profonda riconoscenza per il Santo Padre per questa beatificazione, ringraziamo soprattutto il Signore per aver fatto risplendere davanti ai nostri occhi una simile luce e per averci dato come esempio il beato Aloizij Stepinac.
Preghiamo la Santissima Vergine Maria e San Giuseppe per Lei, per i Suoi defunti, e secondo tutte le Sue intenzioni.