Lettera

Blason   Abbazia San Giuseppe di Clairval

F-21150 Flavigny-sur-Ozerain

Francia


Scaricare come pdf
[Cette lettre en français]
[This letter in English]
[Dieser Brief auf deutsch]
[Deze brief in het Nederlands]
[Esta carta en español]
25 agosto 2021
san Giuseppe Calasanzio


Carissimo Amico dell’Abbazia di San Giuseppe,

A Torino, tutti conoscono la “Piccola Casa della Divina Provvidenza” e la chiamano con il nome del suo fondatore : “Il Cottolengo”. Questa casa ospita più di quattrocento assistiti ; accanto alle strutture per disabili, opera l’ospedale, che dispone di duecentotré posti letto. Più di seicento suore si dedicano al servizio degli ammalati. In totale, milleduecento volontari dell’Associazione Benedetto Cottolengo operano nell’istituto, che accoglie, a Torino e altrove, circa duemila persone. « La ragion d’essere di questa “Piccola Casa”, diceva papa Francesco, non è l’assistenzialismo, o la filantropia, ma il Vangelo. Il Vangelo dell’amore di Cristo è la forza che l’ha fatta nascere e che la fa andare avanti : l’amore di predilezione di Gesù per i più fragili e i più deboli. Questo è al centro. E per questo un’opera come questa non va avanti senza la preghiera, che è il primo e più importante lavoro della Piccola Casa, come amava ripetere don Cottolengo e come dimostrano i sei monasteri di Suore di vita contemplativa che sono legati alla stessa Opera » (21 giugno 2015).

« Non ci capisco nulla ! »

Nato il 3 maggio 1786 a Bra, grosso borgo situato a sud di Torino, Giuseppe Benedetto Cottolengo è il primogenito di una modesta famiglia borghese. Suo padre ricopre la carica di esattore delle imposte. Sua madre, molto devota, partecipa tutti i giorni alla Messa. Seguiranno undici figli, dei quali sei moriranno in tenera età e due si consacreranno al Signore, come il loro fratello maggiore. Giuseppe Benedetto si distingue ben presto per le sue qualità di cuore e di giudizio, ma anche per la vivacità del suo carattere. Sotto la direzione del parroco di Bra, si corregge progressivamente dalla sua tendenza agli accessi di collera. A scuola, però, non gli riesce a entrare niente in testa : « Voi capite subito, e io non ci capisco nulla », si lamenta desolato il bambino con suoi compagni di classe. Giuseppe Benedetto non desidera istruirsi allo scopo di ottenere una buona posizione, ma per diventare un santo. Sua madre gli suggerisce di invocare san Tommaso d’Aquino. La preghiera viene esaudita : si ritrova a poco a poco tra i primi della sua classe. Manifesta ben presto una viva consapevolezza della presenza di Dio, scrive nei suoi quaderni : « Dio mi vede », e ripete spesso : « In Domino ! » (essere e agire in Dio). La sua devozione nei confronti della Vergine Maria si risveglia senza indugio e invita i suoi famigliari a recitare con lui il rosario. Sua madre gli insegna a prendersi cura dei poveri e lo incarica di consegnar loro denaro, cibo o vestiti. L’adolescente diventa egli stesso maestro nell’arte di mendicare per i « suoi poveri » tra parenti, amici e conoscenti. Unendo l’ascesi alla carità, molto spesso si mette in tasca il suo dolce o la sua merenda per distribuirli ai bisognosi. Raggiunti i diciassette anni, cerca la sua strada, esitando tra la vita religiosa e il clero secolare. Prega spesso e intensamente per conoscere la volontà di Dio.

Nel 1802, gli eserciti di Napoleone Bonaparte impongono la loro legge al Piemonte e chiudono l’Università di Torino. Giuseppe Benedetto beneficia allora delle lezioni di due professori della Facoltà di Teologia, rifugiati a Bra. Nel 1805, entra nel seminario di Asti, poiché il suo borgo natale è stato annesso a quella diocesi. Lì, si distingue per la sua devozione, la sua buona condotta e la sua naturale eloquenza : viene soprannominato “Cicerone”. Ordinato sacerdote all’età di venticinque anni, l’8 giugno 1811, esercita subito a Bra il suo zelo per i poveri e i peccatori prima di essere nominato viceparroco a Corneliano. Nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, l’Università di Torino riapre i battenti e il giovane prete vi prosegue i suoi studi di teologia. Nel 1818, la disinvoltura con la quale sostiene la sua tesi di dottorato lo fa notare dai canonici della Santissima Trinità, che chiedono di riceverlo nella loro società. Questa congregazione di sei sacerdoti torinesi presta servizio nella chiesa chiamata Corpus Domini, costruita nel XV secolo per commemorare un miracolo eucaristico che era avvenuto in quel luogo. Il Cottolengo non aspira a un simile onore ; del resto non è nato a Torino, cosa richiesta dallo statuto della congregazione. Tuttavia, questo viene ignorato. Il nuovo canonico si distingue per la sua disponibilità verso tutti ; si adopera con impegno ad alleggerire il lavoro dei suoi confratelli, in particolare con la sua presenza assidua nel confessionale e il suo zelo nel visitare poveri e ammalati. Ma, per lui, questa non è che un’occupazione temporanea.

« La grazia è fatta ! »

Nel settembre 1827, una giovane coppia, i Ferrario, proveniente da Milano con tre figli piccoli, fa tappa a Torino prima di recarsi a Lione. La moglie, incinta di sei mesi, si sente allora molto male. In ospedale, non la vogliono accogliere a causa della sua gravidanza avanzata. Nemmeno il reparto di maternità la accoglie, perché non sta ancora per partorire. Sconvolto, disorientato, il marito trova un unico rifugio per la moglie agonizzante : il dormitorio della stazione di polizia. Tutte le cure sembrano inutili ; bisogna chiamare un prete. Viene trovato proprio don Cottolengo ; con il cuore pesante e oppresso alla vista della disperazione di questa famiglia, egli prepara la giovane madre alla morte. Come, si chiede, questa grande città di Torino, allora capitale di un regno, ha potuto lasciar morire così un’ammalata ? Dopo aver assolto il suo doloroso compito, egli si reca davanti al Santissimo Sacramento : « Mio Dio, perché ? Perché mi hai voluto testimone di questo ? Che cosa vuoi da me ? Bisogna fare qualche cosa ! » Rialzandosi, fa suonare tutte le campane e accendere le candele e, accogliendo i curiosi nella chiesa, esclama : « La grazia è fatta ! » Don Cottolengo si trova, infatti, trasformato dalla certezza che tutte le sue capacità, in particolare le sue doti gestionali e organizzative, saranno messe al servizio dei più bisognosi.

Espone ai confratelli il suo progetto di istituire una modesta casa provvista di qualche letto per i forestieri che non possono essere accolti negli ospedali pubblici. Dando il loro consenso, i canonici non sospettano di aver appena avviato una grande opera. Quando questa acquisterà importanza, faranno del loro meglio per aiutare il loro confratello nella misura del possibile. Gli inizi sono molto umili, senza altre entrate che la beneficenza. Nel gennaio 1828, vengono affittate due stanze nella casa della Volta Rossa ; poco dopo, si aggiungono altre stanze, con l’aumento del numero dei malati. Si presentano dei collaboratori volontari : il dottor Granetti cura gratuitamente, il farmacista Anglesio dona i medicinali, alcune “dame di carità” fungono da infermiere. Ma queste persone pie non sono in grado di svolgere tutti i compiti richiesti da un ospedale. Con l’aiuto di una giovane vedova, Marianna Nasi, il Cottolengo istituisce allora delle “Figlie della Carità” soggette a una regola ; ricevono il nome di Vincenzine.

L’opera è circondata da molta benevolenza, ma il fondatore deve affrontare anche numerose critiche. Si è imbarcato, dicono, in progetti la cui realizzazione supera chiaramente i suoi mezzi. Conoscenti, parenti, confratelli si preoccupano e consigliano di rinunciare a questa folle iniziativa ; i creditori esigono e minacciano ; nell’arcivescovado, il povero canonico è accusato di accaparrare beni con il pretesto di soccorrere i poveri. Ma la prova più dura viene dal colera che, nel 1831, raggiunge il Piemonte. Proprietari e vicini di casa si preoccupano e fanno chiudere l’ospedaletto. Don Cottolengo, abbandonato alla volontà di Dio, vede in questa prova solo una chiamata a ricostruire altrove, su scala più ampia. Nel frattempo, nei locali vuoti, accoglie bambine abbandonate e crea una scuola. Ben presto trova, nella zona nord di Torino, nel sobborgo malfamato di Valdocco, una casetta in affitto che dedica alla Santa Vergine, il 27 aprile 1832. Viene fondata la Piccola Casa della Divina Provvidenza, che manterrà sempre il suo umile nome di Piccola Casa. « Si chiama così, spiega il fondatore, perché, paragonata a tutto il mondo, che pur è casa della Divina Provvidenza, è sicuramente una piccola casa…, e perché non è casa o opera dell’uomo, ma casa e opera della Divina Provvidenza, dove essa sola comanda, guida e dirige. » All’ingresso, sono incise queste parole di san Paolo, il motto di don Cottolengo : Caritas Christi urget nos – La Carità di Cristo ci spinge (2 Cor 5,14).

Un soccorso immediato

Il Cottolengo ripete volentieri : « Io sono un buono a nulla… La Divina Provvidenza, però, sa certamente ciò che vuole. A me tocca solo assecondarla. Avanti in Domino ! » La Piccola Casa vive unicamente della carità di benefattori. Se gli viene chiesto da dove proviene il denaro necessario per la sua istituzione, il Padre risponde : « La Provvidenza mi manda tutto. » Si raccontano a questo riguardo molti aneddoti. Un creditore che non riesce a farsi pagare si ritira pronunciando parole rabbiose. Il Cottolengo lo invita allora a venire a pregare con lui nella cappella. Mentre recitano le litanie della Santa Vergine, arriva un domestico che consegna alla suora portinaia due sacchi di monete con queste semplici parole : « Ringraziate la divina Provvidenza. » Pagando il dovuto, don Cottolengo dice al creditore : « Vedi come la Santa Vergine ci ha subito soccorsi ! » Fatti come questo sono frequenti alla Piccola Casa. La Madonna verrà lei stessa a confortare il Padre dopo una dura prova, come egli lo confessa un giorno a suor Gabriella, testimone della visita di una donna molto nobile e maestosa. 

Il Padre prevede l’ampliamento straordinario che avrà la Piccola Casa. In pochi mesi, vengono acquistati e trasformati dei caffè e altri edifici situati lì attorno. Prende forma una specie di villaggio, in cui ogni edificio riceve un nome significativo : “casa della fede”, “casa della speranza”, “casa della carità”. Si formano vere e proprie comunità di persone, di stile familiare, composte da volontari, uomini e donne, religiosi e laici, uniti per affrontare e superare insieme le difficoltà che si presentano. Nel 1833, vengono aperti tre padiglioni per gli epilettici e due per gli orfani. Nel 1834, due nuove case accolgono i malati di mente, che il fondatore chiama i “buoni figli”. Negli anni successivi, vengono accolti sordomuti, giovani in difficoltà e bambini abbandonati che vengono educati su tutti i piani : « Studiate bene il catechismo, chiede il Padre, e vivete secondo i suoi insegnamenti. Il catechismo è tutto : se si sa bene questo, se ne sa abbastanza ; senza di questo non si sa niente. »Le case sono dotate di officine che consentono ai convalescenti di evitare l’ozio e di imparare un mestiere.

Quando gli viene raccomandato qualche sventurato, il Cottolengo risponde : « Se è un buono a nulla, lo prendiamo ! » Se il caso è nuovo, il Padre costituisce una nuova “famiglia” di malati o di bisognosi ; e se gli viene consigliata la prudenza, replica : « Non abbiamo da cercare le cause della malattia. Sappiamo solo che qualcuno è malato, e di una malattia per cui verrà rifiutato in qualunque altro posto. È quindi la Provvidenza ad averlo mandato da noi. » Raccomanda ai suoi collaboratori : « Quelli che dovete prediligere sono i più abbandonati, i più ributtanti, i più importuni. Sono tutti perle preziose. Se comprendeste bene qual personaggio rappresentano i poveri, li servireste in ginocchio. » Egli è infatti guidato da una profonda convinzione : « I poveri sono Gesù, non sono una sua immagine. Sono Gesù in persona e come tali bisogna servirli. Tutti i poveri sono i nostri padroni, ma questi che all’occhio materiale sono così ributtanti sono i nostri padronissimi, sono le nostre vere gemme. »

Relazioni di vicinanza

«Principio fondamentale dell’opera di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, affermava papa Benedetto XVI, fu, fin dall’inizio, l’esercizio verso tutti della carità cristiana, che gli permetteva di riconoscere in ogni uomo, anche se ai margini della società, una grande dignità. Egli aveva compreso che chi è colpito dalla sofferenza e dal rifiuto tende a chiudersi e isolarsi e a manifestare sfiducia verso la vita stessa. Perciò il farsi carico di tante sofferenze umane significava, per il nostro Santo, creare relazioni di vicinanza affettiva, familiare e spontanea, dando vita a strutture che potessero favorire questa vicinanza, con quello stile di famiglia che continua ancora oggi. » (Torino, 2 maggio 2010).

La morte prematura di Marianna Nasi, nel 1832, non pone fine all’aumento del numero delle Vincenzine. Accanto a queste, operano i Fratelli di San Vincenzo. Don Cottolengo, peraltro, fonda anche cinque monasteri di suore contemplative e uno di eremiti. In quello delle suore sordomute, il Santissimo Sacramento è esposto giorno e notte all’adorazione. Il fondatore considera queste case di preghiera come le più importanti delle sue realizzazioni, come il “cuore” che deve battere per tutta l’Opera. Vede anche la luce un seminario per la formazione specifica dei sacerdoti della Piccola Casa. Nel 1838, viene fondata una scuola per infermiere professionali. Dopo molte preghiere, il Padre decide di aprire, nel 1840, un ospizio per le vittime della prostituzione. Le pentite, ben presto in numero trenta, si distinguono per il loro fervore e la loro mortificazione. Contrariati, i libertini inviano al Padre minacce di morte ; più volte, viene duramente picchiato e, in un’occasione, riceve una grave ferita al petto, preludio al lento deterioramento della sua salute.

Ognuno, nella Piccola Casa, ha una missione ben precisa : chi lavora, chi prega, chi serve, chi istruisce, chi amministra. Ma soprattutto, si prega molto : malati, bambini, suore si alternano durante la giornata nella cappella. La comunione dei santi non è, per il fondatore, un concetto astratto.

Durante la sua visita alla Piccola Casa, papa Benedetto XVI ha sottolineato il ruolo degli ammalati : « Cari malati, voi svolgete un’opera importante : vivendo le vostre sofferenze in unione con Cristo crocifisso e risorto, partecipate al mistero della sua sofferenza per la salvezza del mondo. Offrendo il nostro dolore a Dio per mezzo di Cristo, noi possiamo collaborare alla vittoria del bene sul male, perché Dio rende feconda la nostra offerta, il nostro atto di amore. Cari fratelli e sorelle, tutti voi che siete qui, ciascuno per la propria parte, non sentitevi estranei al destino del mondo, ma sentitevi tessere preziose di un bellissimo mosaico che Dio, come grande artista, va formando giorno per giorno anche attraverso il vostro contributo. Cristo, che è morto sulla Croce per salvarci, si è lasciato inchiodare perché da quel legno, da quel segno di morte, potesse fiorire la vita in tutto il suo splendore. Questa Casa è uno dei frutti maturi nati dalla Croce e dalla Risurrezione di Cristo e manifesta che la sofferenza, il male, la morte non hanno l’ultima parola, perché dalla morte e dalla sofferenza la vita può risorgere » (2 maggio 2010).

Un altro spirito

Il Cottolengo, che conduce una vita così piena di lavori materiali, si prende cura dei malati, gioca in ricreazione con i giovani affetti da disabilità mentali, ha però un’anima di contemplativo : trascorre notti intere in preghiera. Nessuna decisione importante viene presa senza essere stata soppesata nella preghiera. Alle sue “famiglie”, egli chiede di cercare solo la gloria di Dio e la santità. « Non è vietato, dice, pregare per questa e per quell’altra cosa, la Chiesa ce ne dà l’esempio quando ci fa chiedere i beni della terra. Ma è un altro spirito che deve animarci. Nostro Signore ci ha insegnato a cercare prima il regno di Dio e la sua giustizia, e allora tutto il resto ci sarà dato in aggiunta. Per me, la via da seguire è la fiducia assoluta. Non bisogna solo credere alla Provvidenza, bisogna gettarsi nelle sue braccia… La Provvidenza sa meglio di noi quello che va bene per noi. » Ma in certi giorni, il cielo sembra chiuso. Più di una volta, il Cottolengo crolla sotto i debiti : molestato dai creditori, viene citato in giudizio. « Tu credi che io sia su un letto di rose, scrive al fratello. Ah no ! se ascoltassi me stesso, smetterei tutto questo ; ma Dio lo vuole da me. Guai a me se smetto di lavorare ! Se mi fermo, sento i rimproveri dei poveri. » Quando i doni diminuiscono, egli commenta : « Se la Provvidenza ci lascia mancare qualche cosa, questo non può venire da lei ; viene sicuramente da noi ; facciamo il nostro esame di coscienza, c’è sicuramente qualche peccato da noi ! » Un giorno, grida nel mezzo di un sermone : « Il peccato esiste in questa casa. È in mezzo a noi. Qualcuno di noi ha offeso gravemente il Signore… Se ne vada subito, o si corregga e faccia ammenda. Alla Piccola Casa, il peccato è una grande ingiustizia, un’ingratitudine enorme. Non abitiamo forse una casa che Dio ogni giorno inonda dei suoi benefici, che vede rinnovarsi ogni giorno il miracolo della moltiplicazione dei pani ? »

Don Cottolengo non è un santo triste. Sorridente, saltellante, sempre pronto a scherzare, diffonde la gioia attorno a sé. I poveri ricoverati alla Piccola Casa desiderano sempre la sua compagnia : « Il solo vederlo, dicono, ci basta, la sua presenza ci consola e quando, per di più, parla con noi, è una gioia. » Egli raccomanda alle Vincenzine : « Voi servite Gesù ne’ suoi poveretti, ne’ suoi ammalati, ne’ suoi bambini ; dunque ci vuole sempre contentezza e allegria, altrimenti sembrerà che serviate a malincuore il nostro buon Gesù. »

Un invito insolito

Nel 1841, scoppia a Torino un’epidemia di tifo. Molti residenti della Piccola Casa vengono colpiti e la morte porta via sei dei dieci sacerdoti che prestano servizio nella struttura. Risparmiato, il Padre si dona senza misura. « Tutto questo sta accadendo, dice, perché Dio vuole che io mi distacchi ancor di più. Sento in me qualche cosa di insolito che mi invita a salire in cielo. È ora di preparare il fagotto e di andarsene in Domino (verso il Signore) ». Ma la Provvidenza veglia : il fondatore può resistere fino a quando il suo successore, don Anglesio, il generoso farmacista degli inizi, divenuto prete, si sia completamente ripreso dal tifo. Colpito allora egli stesso dalla malattia ed esausto, il Padre si congeda da ognuna delle sue “famiglie”, le benedice e assicura loro la sua protezione quando sarà arrivato in cielo. Si ritira presso il fratello, parroco di Chieri, nei pressi di Torino. Ha quasi cinquantasei anni quando sopraggiunge la sua morte, il 30 aprile 1842. Le sue ultime parole sono : « Misericordia, Domine ! (Misericordia, Signore !) Buona e santa Provvidenza !… Vergine Santa, ora tocca a Voi ! »

Beatificato nel 1917, il “San Vincenzo de’ Paoli italiano” è stato canonizzato da Pio XI il 29 aprile 1934. Oggi, si contano in Italia trentacinque filiali della Piccola Casa. I religiosi e le religiose del Cottolengo sono presenti anche in Svizzera, in Etiopia, in Kenya, in Tanzania, in India, negli Stati Uniti e in Ecuador.

Non è dato a tutti di intraprendere opere così spettacolari, ma ciascuno può contribuire, con i suoi piccoli atti di carità e le sue opere di misericordia, a propagare, là dove la Provvidenza lo ha posto, l’amore di Dio e la conoscenza del vero e unico Salvatore Gesù Cristo. « Le opere di misericordia, insegna il Catechismo della Chiesa cattolica, sono le azioni caritatevoli con le quali soccorriamo il nostro prossimo nelle sue necessità corporali e spirituali. Istruire, consigliare, consolare, confortare sono opere di misericordia spirituale, come perdonare e sopportare con pazienza. Le opere di misericordia corporale consistono segnatamente nel dare da mangiare a chi ha fame, nell’ospitare i senza tetto, nel vestire chi ha bisogno di indumenti, nel visitare gli ammalati e i prigionieri, nel seppellire i morti. Tra queste opere, fare l’elemosina ai poveri è una delle principali testimonianze della carità fraterna : è pure una pratica di giustizia che piace a Dio » (n° 2447).

Oggi, quando molti nostri contemporanei ripongono la loro speranza nei soli beni terreni, chiediamo, per intercessione di san Giuseppe Benedetto Cottolengo, la grazia di cercare prima il regno di Dio e di confidare, per tutto, nella sua divina Provvidenza. « A chi straordinariamente confida, diceva il santo, Dio straordinariamente provvede. »

Dom Antoine Marie osb

Per pubblicare la lettera dell’Abbazia San Giuseppe di Clairval su una rivista, giornale, ecc., o per inserirla su un sito internet o una home page, è necessaria un’autorizzazione. Questa deve essere richiesta a noi per E-Mail o attraverso https://www.clairval.com.