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[Cette lettre en français] |
19 giugno 1998 Sacro Cuore |
Il Signore ci ha posti davanti alla via della vita ed a quella della morte (Ger. 21, 8). Gesù Cristo ce lo ricorda nel Vangelo, quando afferma che ci sono due sole vie: l'una porta alla vita eterna, e l'altra alla perdizione (ved. Matt. 7, 13). Questa dottrina delle due vie rimane sempre presente nella catechesi della Chiesa. È un appello alla responsabilità con cui l'uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno (ved. Catechismo della Chiesa Cattolica, CCC, 1696, 1036). Invita a riflettere sull'importanza delle nostre scelte.
Un'illusione
La vita cristiana, quando è vissuta in modo generoso e sincero, è esigente, è una porta angusta, un sentiero stretto, ma che fa trovare la vera gioia e porta in cielo. «Scegli la vita!... vale a dire: scegli Dio. Infatti, Egli è la vita: Ascolta gli ordini che io oggi ti prescrivo... ama il Signore, tuo Dio, cammina nelle sue vie, osserva i suoi comandamenti, le sue leggi e i suoi precetti, e vivrai (ved. Deut. 30, 16)... Secondo il Deuteronomio, scegliere la vita significa: amare (Dio), entrare in comunione di pensiero e di volontà con Lui, affidarsi a Lui, camminare sulle sue orme... Gesù ci mostra come possiamo scegliere la vita: Colui che vorrà salvare la sua vita la perderà, ma colui che perderà la sua vita per me, la salverà (Luca, 9, 24). La Croce non è la negazione della vita, la negazione della gioia e della pienezza di essere uomini. Al contrario, essa ci mostra esattamente il vero mezzo, il modo per trovare la vita. Chi conserva per sè la vita e vuol prenderne possesso, sbaglia la propria vita. Solo perdendo se stessi si scopre la via per ritrovarsi e trovare la vita. Più gli uomini hanno osato, audacemente, perdersi, darsi, più hanno imparato a dimenticare se stessi, più la loro vita è diventata ricca ed elevata; basti pensare a Francesco d'Assisi, a Teresa d'Avila, a Vincenzo de' Paoli, al Curato d'Ars, a Massimiliano Kolbe: sono tutte figure di veri discepoli, che ci mostrano la via della vita, perchè ci mostrano Cristo. Possono insegnarci a scegliere Dio, a scegliere Cristo ed a scegliere così la vita» (Cardinale Ratzinger, id.).
«Voglio il lavoro di Dio»
Anwarite è una bambina del Congo belga, oggi Repubblica democratica del Congo (ex Zaire; paese dell'Africa equatoriale), ardente, volitiva, anche esuberante, un po' suscettibile e scontrosa. In compenso, è molto servizievole e molto pia. Nata il 29 dicembre 1939, è stata battezzata nel 1941. A quindici anni, dichiara alla mamma: «Voglio il lavoro di Dio», vale a dire: «Voglio farmi suora». «Aspetta, aspetta!», risponde la madre che ha bisogno di lei per le faccende di casa e i lavori dei campi. Ma, con il suo carattere nervoso, Anwarite non sa aspettare, ed entra nella Congregazione della Sacra Famiglia. Sua madre si inchina davanti al fatto compiuto. Malgrado il carattere fremente, o forse a causa di esso, la nuova suora si dimostra totalmente fedele alla sua vocazione. Scrive nei suoi appunti: «Sono venuta qui per seguire chi? Le superiore? Le suore? I bambini? Tutti gli uomini? Affatto. Non sono forse venuta per un solo Diletto, Gesù?... O Gesù, fammi la grazia di morire qui subito, piuttosto che lasciarti per tornare nel mondo malvagio. Tu non mi puoi lasciare, a meno che io stessa non cominci a lasciarti». E a sua madre, che cerca di farla tornare: «Mi sono consacrata a Dio seriamente e non per scherzo. Colui che mette mano all'aratro e si guarda indietro, non è degno del regno di Dio... Bisogna distaccarsi dal proprio popolo, dal proprio clan, dalla propria tribù».
La preghiera riveste per lei la massima importanza: «L'ora della meditazione, scrive, è il momento del riposo e del colloquio con Nostro Signore, proprio come due fidanzati chiacchierano insieme senza pensare allo stento e alla fatica. Anche se il tuo cuore è arido, supplica ugualmente. Il Signore Gesù si stupirà e dirà: «Anche se le giro le spalle, non rinuncia». Siamo consacrate, dobbiamo pensare allo Sposo delle nostre anime, chiedere la disposizione al silenzio, saper conversare con Dio nel proprio cuore. Signore Gesù, dammi zelo e un grande amore per la preghiera, affinchè possa progredire nella vita spirituale».
Amicizia intima
La preghiera non è il solo alimento della vita spirituale di suor Anwarite. Essa dà molta importanza anche ai sacramenti e particolarmente al sacramento della Penitenza: « Gesù osserva il peccatore, scrive nei suoi appunti, lo penetra intimamente, affinchè si converta. Se confessi un peccato grave, non pensare che sarai disprezzata; al contrario, il sacerdote ti rispetterà per via della tua semplicità. Colui che confessa i suoi peccati senza vergogna, per quanto essi possano esser gravi, è un eroe». Essa vuol coltivare anche lo spirito di sacrificio, quel che chiama: «mangiare cose amare». «Il Signore Gesù, quando ci ha chiamate, ci ha chiesto il sacrificio delle cose di questo mondo, dell'amore umano, della nostra stessa persona».
Il suo cuore è tutto dedicato a Maria. Le piace molto recitare il Rosario, la sua preghiera preferita. Vi trova gioia e forza. Ne ha recitate delle «Avemarie» e dei Rosari!... nella stireria, in cucina, nella sacristia, o mentre sorvegliava gli allievi... Legge avidamente le «Glorie di Maria» di Sant'Alfonso de Liguori.
Allegria rumorosa
Un giorno, mentre delle novizie tornano da un percorso apostolico, un giovane fa loro proposte indecenti. Suor Anwarite rimbrotta l'importuno: «Perchè aver detto simili cose e voler far del male alle mie sorelle? Andatevene! Vi comportate come un uomo senza spirito. Vi perdoniamo, ma andatevene!» Suor Anwarite ha un grande amore per la verginità. Si è consacrata totalmente a Cristo, corpo ed anima: Mi hai sedotto, Signore, ed io mi sono lasciato sedurre (Ger. 20, 7).
Uno stimolante prezioso
Tale cultura edonistica «libera la sessualità da qualsiasi norma morale obiettiva, riducendola spesso ad un gioco e ad un bene di consumo, e cedendo ad una specie di idolatria dell'istinto con la complicità dei mezzi di comunicazione sociale. Le conseguenze di un simile stato di fatto sono visibili a tutti: trasgressioni varie, che si accompagnano con innumerevoli sofferenze fisiche e morali per gli individui e per le famiglie. La risposta della vita consacrata risiede prima di tutto nella pratica gaudiosa della castità perfetta, come testimonianza della potenza dell'amore di Dio nella fragilità della condizione umana. La persona consacrata attesta che quel che i più ritengono impossibile, diventa, con la grazia del Signore Gesù, possibile ed autenticamente liberatore. Sì, in Cristo, è possibile amare Dio con tutto il cuore, ponendolo al di sopra di qualsiasi altro amore, ed amare altresì tutte le creature con la libertà di Dio! Ecco una delle testimonianze che sono oggi più necessarie che mai, precisamente perchè è talmente poco compresa dal mondo. È proposta a qualunque persona ai giovani, ai fidanzati, ai coniugi, alle famiglie cristiane per mostrare che la forza dell'amore di Dio può operare grandi cose all'interno medesimo delle vicissitudini dell'amore umano...
«È necessario che la vita consacrata presenti al mondo di oggi esempi di castità vissuta da uomini e donne che fanno prova di equilibrio, di padronanza di sè, di iniziativa, di maturità psicologica ed affettiva. In tale testimonianza, l'amore umano trova un punto d'appoggio solido, che la persona consacrata trae dalla contemplazione dell'amore trinitario, che ci è stato rivelato da Cristo... La castità consacrata appare come un'esperienza di gaudio e di libertà. Illuminata dalla fede nel Signore risuscitato e dall'attesa dei nuovi cieli e della nuova terra, costituisce anche uno stimolante prezioso per l'educazione alla castità, necessaria in altre condizioni di vita» (Giovanni Paolo II, ibid., 88).
I Simba
1964. Il Congo, diventato indipendente da quattro anni, è in preda alla guerra civile. I fautori di Patrice Lumumba, capo ribelle che è stato assassinato nel 1961, hanno organizzato un «esercito popolare di liberazione». Questo è comandato dal generale Olenga, che ricorre ai servizi di una tribù del paese, i Simba.
Il 29 novembre 1964, a mezzogiorno, i Simba (che hanno ucciso il vescovo di Wamba, Monsignor Wittehois, il 26 novembre) arrivano al convento delle Suore della Sacra Famiglia. Parecchie religiose fuggono nella boscaglia, dove incontrano Madre Kasima, la superiora generale, che torna, con un gruppo di orfanelli, dopo aver proceduto alla raccolta di foglie di manioca. Madre Kasima, molto calma, riporta tutti a casa. Il comandante dei Simba rassicura le religiose terrorizzate: viene per condurle al sicuro, a Wamba. Le suore raccolgono rapidamente le loro cose. Suor Anwarite porta con sè il quaderno dei suoi appunti ed una statuetta della Santa Vergine che le è stata regalata tre mesi prima. Verso le quattro del pomeriggio, il camion che porta via le suore si avvia. Sono trentaquattro, e recitano il Rosario, mentre i ribelli cantano loro canzoni equivoche.
Arrivata ad Isiro, la comunità viene condotta nella residenza del colonnello Yuma Deo. Poi, col pretesto che non vi è abbastanza posto, viene annunciato alle suore che saranno alloggiate in un'altra casa. Ma l'uomo che le guida ha ricevuto l'ordine di trattenere suor Anwarite, perchè il colonnello Ngalo vuol averla per sè. Dal canto suo, il colonnello Olombe vuol riservarsi suor Bokuma. Madre Kasima si interpone e protesta. Viene schiaffeggiata; quindi, Yuma Deo le dice: «Poichè parlate così, chiamerò i miei soldati affinchè insozzino tutte le vostre figlie». Suor Anwarite interviene: «Perchè volete uccidere Madre Kasima? Uccidete me sola».
Il colonnello Olombe ordina poi a suor Anwarite di salire in macchina per recarsi da Ngalo, e la spinge a viva forza nella propria macchina, assieme a suor Bokuma. Ma, siccome si assenta per un istante, le due religiose escono dalla macchina e rifiutano di risalirci: «Non voglio andare a commettere un tale peccato; se volete, uccidetemi!» grida Anwarite. Olombe comincia dunque a colpire selvaggiamente le due religiose con il calcio di un fucile. Suor Anwarite gli dice: «Vi perdono, perchè non sapete quel che fate». Con un braccio rotto, il viso tumefatto, prima di cadere esanime, suor Anwarite ripete: «È questo che ho voluto». I Simba che assistono alla scena, credendo che Olombe sia impazzito, gli prendono l'arma. Questi, interpretando male il loro modo di agire, chiama: «Simba! venite subito, mi vogliono uccidere». Accorrono due giovani Simba, con le baionette pronte. «Trafiggete questa suora, conficcatele il coltello nel cuore!» Quattro o cinque volte, o anche di più, la trafiggono, mentre geme. Olombe afferra allora la rivoltella e tira una pallottola nel petto di Anwarite che respira ancora. Spira il 1° dicembre 1964, all'una di notte, vergine e martire, come aveva tanto desiderato. Dopo l'omicidio, Olombe si calma e fa trasportare all'ospedale suor Bokuma. Le altre religiose vengono trasferite a Wamba, al riparo dai combattimenti.
Fedeltà di tutti i giorni
«La Chiesa propone l'esempio di numerosi santi e sante che hanno reso testimonianza alla verità morale e l'hanno difesa fino al martirio, preferendo la morte ad un solo peccato mortale. Elevandoli agli onori degli altari, la Chiesa ha canonizzato la loro testimonianza e dichiarato vero il loro giudizio, secondo cui l'amore di Dio implica necessariamente il rispetto dei comandamenti, anche nelle più gravi circostanze, ed il rifiuto di trasgredirli, anche nell'intento di salvare la propria vita...
«Il martirio è un segno luminoso della santità della Chiesa: la fedeltà alla sacra Legge di Dio, alla quale vien resa testimonianza a prezzo della morte, è una proclamazione solenne e un impegno missionario «usque ad sanguinem» (fino al sangue) perchè lo splendore della verità morale non sia oscurato nei costumi e nelle mentalità delle persone e della società. Una tale testimonianza ha un valore straordinario in quanto contribuisce, non soltanto nella società civile, ma anche all'interno delle stesse comunità ecclesiali, ad evitare che si sprofondi nella crisi più pericolosa che possa colpire l'uomo: la confusione del bene e del male che rende impossibile fissare e mantenere l'ordine morale degli individui e delle comunità. I martiri, e, più generalmente, tutti i santi della Chiesa, con l'esempio eloquente ed attraente di una vita totalmente trasfigurata dallo splendore della verità morale, rischiarano tutte le epoche della storia, risvegliando in esse il senso morale. Rendendo una testimonianza senza riserve al bene, sono un rimprovero vivente per coloro che trasgrediscono la legge (ved. Sap. 2, 12) e danno un'attualità costante alle parole del profeta: Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che danno l'amaro per dolce e il dolce per amaro (Is. 5, 20).
«Se il martirio rappresenta il sommo della testimonianza resa alla virtù morale, a cui sono chiamate relativamente poche persone, esiste comunque una testimonianza coerente che tutti i cristiani devono esser pronti a rendere ogni giorno, anche a prezzo di sofferenze e di duri sacrifici. Infatti, di fronte alle numerose difficoltà che la fedeltà all'ordine morale può far affrontare anche nelle circostanze più banali, il cristiano è chiamato, con la grazia di Dio implorata nella preghiera, ad un impegno talvolta eroico, sostenuto dalla virtù della forza attraverso la quale come insegna San Gregorio Magno può giungere fino ad «amare le difficoltà di questo mondo in vista delle ricompense eterne» (Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, nn. 91-93).
Beata Clementina-Anwarite, ottienici da Dio il coraggio di vivere secondo tutte le esigenze del Vangelo, e di giungere in Cielo con tutti coloro che ci sono cari, vivi e defunti.